QUELLO CHE NON DICO A NESSUNO

Stanotte, 25 maggio 2012 alle ore 02;04

comincio a pubblicare qui alcuni capitoli di questo mio terzo libro scritto dal settembre 2010 a gennaio 2011.

non posso pubblicarli tutti perché ho ricevuto la richiesta di non farlo, alla quale mi attengo.

Quindi qui si potranno leggere quelli che riguardano alcune parti della

mia vita e altri che sono già stati pubblicati sulla mia bacheca di fb.

Lascerò comunque il file completo e, dopo il tempo debito, magari dopo la mia partenza da questa valle di lacrime, se ci sarà interesse, potrà essere pubblicato per intero. 

Ma nel frattempo ci tengo a far leggere a chi lo desidera le parti 

libere da censure varie, perché, secondo me, sono 

tra le mie pagine migliori.

Una precisazione si rende necessaria.

I racconti erotici che pubblico qui di seguito sono si in parte il frutto della mia esperienza, ma non sono realmente accaduti.

Sono sogni, desideri, assemblaggi di cose vissute davvero ed altre

solo desiderate.

Quindi ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale.

La vostra Ari ha una fervida fantasia.

 

Buona lettura.

 

 

QUELLO CHE NON DICO A NESSUNO

 

PREFAZIONE:

                       

IO POETA

 

- primo respiro -

 

L'ombra 

della felce e dell'ortica

attraversa

segnata di linee profonde

assorbe

le piccole foglie scarlatte

di un pensiero di aprile

 

Non torna

quell'aria di filo di lana

in attesa 

della spallata fremente

 

La gara

giace sulla pista vuota 

come fiato

spezzato 

– convulso

 

 

Non hanno più

un luogo 

le caviglie scattanti

 

Solo duro 

lavoro di ogni giorno

per non si sa

dove.

ANGELO NERO NUDO - 2011 olio su tela 13 x 18
ANGELO NERO NUDO - 2011 olio su tela 13 x 18

 

CAPITOLO TERZO

 


 

IL PRIMO

 

- campo lungo -

 

Avevo 15 anni quando permisi a Carlo di entrare per la prima volta dentro di me.

Non era la passione che mi spingeva verso di lui, era un affetto molto profondo, ma fraterno, era il legame di sangue che ci inseguiva vita dopo vita lungo i secoli.

Io questo allora non lo avevo ben chiaro e mi era più comodo chiamarlo amore, ma in fondo sapevo benissimo che quello che provavo per lui era un'altra sensazione.

Però c'era la mia vita che mi spingeva tra le sue braccia, c'era la mia infanzia contrastata a contrastante, che sbocciava in un corpo di donna che mi andava così tanto stretto da cercare di allargarlo mangiando enormi quantità di dolciumi, sperando di addomesticare tutto quell'amaro con lo zucchero che mi si scioglieva voluttuosamente in bocca.

Le mani di un uomo adulto avevano colto i miei primi impulsi e avevano guidato le mie fantasie veloci e per nulla sopite verso vie dolorose e oscure.

Io sentivo qualcosa che non si atteneva a ciò che ci si aspettava da me: non ero una bambina come venivano dipinte le bambine nei bellissimi libri che leggevo, la notte, mentre tutti in casa dormivano.

Io mi sentivo un angelo con la carne, un angelo di amore per corpo, il mio corpo che viveva già nonostante nessuno lo pensasse: scrissi più o meno questo in un mio diario dei dodici anni, un quaderno con la copertina ricoperta di cacofonici colori. Lo conservo ancora, quel quaderno, come molti altri dei miei anni passati, anche se purtroppo diversi li ho gettati via, misconoscendo come ho fatto fino ad ora persino a me stessa quello che io provavo, che era così diverso da quanto mi veniva raccontato in tale bella e compiuta forma, che era completamente dissimile da quanto mia madre cercava nei miei modi di fare senza trovarlo assolutamente.

Avevo poco più di tre anni il giorno che mi sorpresero a sbirciare curiosa nei pantaloni corti di un mio cuginetto più piccolo e fui redarguita aspramente che ' quelle cose ' una bambina per bene non le avrebbe nemmeno dovuto pensare.

Io mi sentivo in tutto e per tutto una bambina per bene, non dicevo mai bugie ed obbedivo sempre, anche se spesso a malincuore: non facevo mai e poi mai una cosa che mi era stata vietata.

Ma quello che provavo, che cosa c'entrava quel sottile solletico in una parte di me che conoscevo assai poco, con le bugie? Con disubbidire alla mamma o al babbo?

Perché poi mi avevano sgridata con un'aria così preoccupata?

Ero troppo piccola per dare una risposta a questi enormi interrogativi e reagii assecondando un'istintiva voce che mi era dentro da sempre: staccai il pensiero e il ricordo dalle azioni, creai due piani, due realtà che non comunicavano tra di loro, per dare la possibilità alla vita di crescere dentro di me e alla bambina di vivere con il sorriso delle persone a cui voleva bene.

Niente di più sbagliato.

Così accettai le carezze blasfeme del sacerdote che sporcò irrimediabilmente gli anni che dovevano essere i più belli della mia vita, i più spensierati e mi caricai di un dolore assai più grande delle mie piccole forze.

Ma la vita, nonostante tutto, ha i suoi sentieri che non vengono tracciati da nessuna mano umana e continuò a scavare dentro di me, portandomi avanti con lei

Mi venne insegnato che il mio corpo provava un desiderio così bello che però era chiamato peccato.

Come potevo non provarlo?

Non ci riuscivo.

Inoltre proprio l'amore era legato a quelle sensazioni, io lo sapevo già, perché quando guardavo alla televisione un bacio, allora assai casto, tra un uomo ed una donna, o uno sguardo intenso e passionale, io sentivo accendersi in me le medesime emozioni che venivano chiamate con quel brutto nome: peccato mortale.

Amare è uguale a morire?

Chiudere l'amore in stalli per bestiame era la via giusta? Solo tra un uomo e una donna, solo dopo una certa età, solo nel sacro vincolo del matrimonio, solo per mettere al mondo un figlio.

E io allora era preda di quel demonio, di quel serpente che vedevo schiacciato sotto il tallone scalzo della madre del figlio di quel dio che mi veniva contrabbandato per buono e giusto?

Aveva dunque egli creato in me un mostro?

Quando io guardavo i due bellissimi attori che si baciavano sullo schermo della tivù o del cinemascope, io ero sempre lui che baciava lei, io ero quella mano che la prendeva alla nuca allargando le dita tra i suoi capelli, che la attraeva a sé guardandola intensamente, io ero quelle labbra che conducevano quella danza che non avevo mai provato ma che sentivo di conoscere fino in fondo.

La notte abbracciavo il mio orso di pezza a immaginavo, sognavo ad occhi aperti, di baciare una bellissima principessa mentre su di una slitta tirata da cavalli fumanti nello sforzo, come nel film ' Il dottor Zivago ', la neve cadeva lenta e intensa su di noi; sentivo il corpo di lei abbandonarsi e fremere tra le mie braccia, sentivo il suo respiro profumato invadermi i polmoni in fiamme.

Poi mi scuotevo dal mio sogno e mi dicevo che stavo sbagliando, che io ero lei. Riprendevo allora il filo della mia fantasia e mi perdevo nei particolari della foresta incantata che correva attorno a me, nel rumore degli zoccoli che battevano contro il ghiaccio indurito, nel suonare dei piccoli campanelli attaccati agli odorosi finimenti, per poi scivolare di nuovo nella estatica sensazione di guardare quel volto pallido ed acceso, il mio volto pallido ed acceso, come se mi staccassi da me e guardassi me stessa attrice ed attore nei due personaggi.

Premevo le labbra sul cuscino e sentivo la stoffa di cotone riscaldata dal mio fiato aggredire l'interno delle mie labbra, così sensibile e sempre avido di contatti, sentivo una mano entrare nelle mie viscere, afferrarle e stringerle forte, attorcigliarle su loro stesse e tentare di strapparle da me.

Quello era l'amore, lo sapevo, lo conoscevo, ma ugualmente sentivo che il cuore, il famoso cuore con cui faceva rima, non c'entrava nulla con esso.

Si, il cuore accelerava i suoi battiti fino a farmi male, ma l'amore si depositava altrove e svegliava altri muscoli di me, quelli che erano celati nel profondo tra le mie gambe.

 

Fu sempre il sacerdote a suggerirmi i movimenti da fare con la mano e me li descrisse così bene perché io capissi fino in fondo cosa NON dovevo fare, quei movimenti che soli riuscivano a portare a compimento quello strano struggimento di carne, che soli dissetavano anche se per poche ore quella forte arsura che era sete di acqua creata dal fuoco, proprio lì, dove non si doveva guardare, dove non si doveva toccare, nel luogo di noi di cui non di doveva parlare, che non si doveva neppure sentire.

Ma, oh, quando sentii per la prima volta quell'acuto brivido di diapason sotto le mie dita incerte ma sicure, incontrai il bene più bello che avessi assaggiato fino ad allora.

Avevo sette o forse otto anni, non di più, ero uno scalmanato ragazzaccio con gli occhi tristi, con addosso un vestito ed un golfino che non erano i suoi, ma sembravano presi in prestito da qualcuno totalmente diverso da lui, un vestito sollevato su due gambe forti e muscolose imprigionate in calzini bianchi traforati che scendevano alle caviglie nei movimenti del gioco e si sporcavano di terra ed erba.

Era il bello più bello che avessi mai visto quel buio coloratissimo e luminoso dietro alle mie palpebre serrate con forza su occhi che non distinguevano nulla ma portavano ugualmente alla mente visioni prive di una forma conosciuta.

Vidi per la prima volta il viso del piacere ed era così lucente da non poterlo descrivere ed era così sbagliato da non poterlo capire.

 

Tristissima di essere così felice, di sentirmi così completa, portai le mie dita un po' umide alle mie labbra ed assaggiai il mio sapore, ascoltai quell'odore che già riconoscevo in maniera istintiva come radice unica di un piacere che era veicolo di forze molto maggiori di quelle della mia volontà.

Quel gesto misterioso divenne un rito sotterraneo e talmente privato che neppure lo confessavo a me stessa, divenne un appuntamento con una parte di me che non doveva neppure esistere.

Fu quel piacere a portarmi a maturare la prima scelta effettiva della mia vita: mi chiesi se potevo io provare in modo così imperioso una emozione sbagliata, e decisi che erano le regole imposte ad essere sbagliate.

Amavo così tanto quel dio che non potevo più sentirmi la traditrice di quel forte amore nel non seguire i suoi dettami: così decisi che quel dio non esisteva affatto, lasciandomi orfana dell'unico padre che mi era rimasto.

Avevo quattordici anni e, dopo aver passato intere notti ad arrovellarmi sulla mia mancanza di onestà nei confronti di colui che io sentivo degno di ogni rettitudine, dopo aver vissuto il giorno della confessione e della comunione in chiesa con la certezza di offendere la stessa matrice della mia esistenza con il mio comportamento peccaminoso, divisa tra la mia realtà e una legge che mi veniva imposta, scelsi la mia realtà ed abbandonai la religione cattolica che era stata fonte di intensa meraviglia e di forte impulso spirituale.

Frequentare di già il ginnasio permetteva di cominciare ad affermare la propria volontà.

 

Avevo letto tanti libri che parlavano dell'amore, della poesia dell'amore, dell'intensità dell'amore. Avevo studiato versi in cui quello che io provavo tra le gambe veniva traslato in una dimensione totalmente incorporea.

Avevo ascoltato parole che narravano di brividi assolutamente non corrispondenti ai miei: io non riuscivo ad amare fuori dal mio corpo, solo nella mia mente, non potevo neppure immaginare come si facesse.

E allo stesso modo non mi riusciva di provare quel trasporto guardando il viso di un ragazzo o un uomo, ma sempre e comunque erano i volti delle mie amiche a sciogliermi il sangue e ad accelerare il mio respiro.

Ma come potevo riconoscere quello che sentivo se in nessun libro era narrato, in nessun verso cantato?

L'amore era solo tra un uomo ed una donna.

 

Carlo si innamorò di me, eravamo due adolescenti, forse due bambini soli.

Io sentivo uno spasimo continuo di desideri di contatti, di carezze ed abbracci, sentivo un vuoto che non aveva mai fondo.

Il suo sguardo ingenuo ed aperto esprimeva in parte quell'ardore che io avevo visto negli occhi degli attori innamorati, o sulle pagine dei fotoromanzi rosa che leggeva mia zia. Mia madre non voleva che io li leggessi, ma spesso la zia li dimenticava aperti sul tavolo della cucina, così io leggevo alcune pagine di quelle storie melense e stupide, nelle quali uomini e donne si rincorrevano come mosche attratte dal miele.

 

Veramente a me Carlo sembrava più un pesce lesso e non aveva certo il fascino sornione di Clarck Gable, ma comunque era lì, era per me, e io sentivo una profonda tenerezza per lui.

Avevo dodici anni quando mi baciò per la prima volta. Stavamo ballando in una festa estiva di paese e l'orchestrina sul palco rialzato ci dava dentro con i fiati le chitarre e la batteria, per divertire tutta quella gente a cui le gambe fremevano.

Io indossavo un fresco abito di cotone lungo fino ai piedi, secondo la moda di allora, bianco con piccoli disegni blu, come un arabesco.

La mia zazzera corta e voluminosa era ramata e lucida, gli occhi dietro le spesse lenti, accesi.

Sentivo che quella sarebbe stata una serata speciale per me ed ero molto emozionata. Mi sembrava di aver un appuntamento importante col mio destino e non mi sbagliavo: Carlo divenne poi il mio primo marito.

Ballammo qualche svelto, così, lui era goffo, ma cercava di fare il disinvolto, io mi divertivo a provocarlo. Ero ancora snella, ero bella, molto, e quella sera lo sapevo, nonostante non me ne accorgessi mai.

Sentivo i suoi occhi sorridenti passare dal mio viso al mio seno, ai miei fianchi.

Quella fu la prima volta che pensai di essere desiderabile. Il ragazzaccio scarmigliato quella sera dormiva e al suo posto una ragazzina maliziosa si godeva la festa, la musica e il fresco della sera di giugno. Era il 1967.

All'improvviso il ritmo di twist si spense e le note rallentarono.

Alcuni abbandonarono la pista, andandosi a sedere sulle sedie disposte ai bordi ma tutte le coppie si allacciarono e presero a dondolarsi al ritmo lento.

Io non avevo mai ballato un cheeck to cheeck fino ad allora e penso neppure Carlo: ci guardammo un attimo sospesi, poi lui fece un cenno ed io volai tra le sue braccia. Attorno a noi i ragazzi già si stringevano alle loro ballerine, e qualche coppia si baciava già.

Era usanza che la pista da ballo fosse una specie di zona franca, nella quale era permesso scambiarsi le effusioni che allora per strada erano del tutto non abituali, così i fidanzatini e i morosini approfittavano largamente dell'occasione, incollando le bocche sulle bocche come volessero mangiarsi.

Mi guardai in giro e sentii tutte quelle bocche sulla mia.

 

Avevo favoleggiato a lungo sul mio primo bacio, lo avevo girato in filmoni mitici dell'immaginazione, con scene di interminabili rallentì.

Il tempo nel quale le labbra di lui si avvicinavano alle mie per poi sfiorarle, era immenso e mentre io attendevo quel tocco magico e prezioso, che mai più si sarebbe ripresentato in tutta la mia vita, assaporavo una vasta serie di emozioni e pensieri contrastanti tra il desiderio, la paura, l'eccitazione, la tenerezza, la voglia di fuggire, la curiosità.

Quando Carlo mi cinse la vita io gli allacciai le braccia dietro il collo, con una studiata mossa cinematografica. I nostri corpi però erano ancora lontani.

Ballammo su di una sola mattonella, con piccoli passi brevi, dondolando i fianchi.

Lui mi strinse a sé, facendosi coraggio: entrambi guardavamo le altre coppie che, vicinissime, tutte ormai si baciavano con passione. Sentivamo i loro respiri un po' affannosi ed i rumori sordi e un poco liquidi di quelle bocche fuse insieme.

Carlo mi strinse più decisamente a sé ed io mi appoggiai interamente a lui. Anche quella era una mia prima volta, non avevo mai assaggiato con le mie forme il corpo di un ragazzo.

Appoggiò la sua guancia contro la mia: era una guancia non più imberbe ma non certamente virile e la sua carnagione chiarissima coperta di efelidi lo rendeva un eterno lattante. Gli occhi azzurri cerulei erano tondi come quelli di un gatto.

Sentivo l'odore del suo dopobarba, probabilmente sottratto al padre, di cui si era abbondantemente annaffiato.

Erano già diversi mesi che ci vedevamo tutti i pomeriggi dopo la scuola: ci trovavamo in parrocchia dove ci eravamo conosciuti e giocavamo a ping pong o bigliardino. Io parlavo tanto e Carlo mi ascoltava attentamente, lui guidava la sua vespa rossa ed io mi allacciavo alla sua vita con le braccia.

La nostra piccola città non aveva segreti per noi ed ogni via, ogni angolo si colorava del nostro passaggio chiassoso. Lui aveva una nuvola di capelli rosso carota, io un aspetto da maschiaccio: chi poteva non ricordarsi di noi?

E pensare che all'inizio a me piaceva il suo amico Ferruccio e lui faceva una discreta corte alla mia amica Viola.

Con il pretesto di farli conoscere meglio, io conducevo Viola nei luoghi dove sapevo si sarebbero incontrati e lui portava sempre con se Ferruccio perché desiderava ricambiarmi il favore. Ma ud un certo momento mi accorsi che la presenza dei nostri amici non ci era più necessaria.

Carlo prese a guardarmi in uno strano modo, a divenire un po' più riservato e timido, ad arrossire facilmente, io cominciai a sentirmi sola senza di lui, a desiderare di vederlo, di parlargli, di specchiarmi nel suo sorriso immediato.

Per Caro io ero una gemma luminosa: gli piaceva tutto quello che dicevo o facevo, mi accondiscendeva in tutto, mi viziava, portandomi piccoli ingenui regali.

Io non ero abituata a tanto apprezzamento, anzi, piuttosto era il contrario, mi sentivo sempre contrastata e inadeguata.

Carlo cominciò a scrivermi bigliettini con cuori trafitti e stelle, io mi sentivo in dovere di raccontargli ogni mio pensiero, o quasi.

Restava sempre il pensare sotterraneo che scorreva in modo parallelo al flusso superficiale delle parole.

Sapevo che si era innamorato di me, anche se non me lo aveva detto apertamente: allora la parola amore era rivestita ancora di un alone di mistero e di rispetto, era un cappello da mago del quale non si conosceva la capienza.

Quella sera mentre ballavamo lui diventò padrone dei suoi sentimenti e li depose sulla mia guancia con un piccolo bacio a labbra chiuse.

Chissà, mi chiedevo con il fiato sospeso, se i suoi compagni più grandi di gioco o di scuola gli avevano insegnato come muovere la bocca per baciare, gli avevano raccontato i segreti del bacio alla francese, gli avevano spiegato come fare per toccarmi il seno senza che io gli mollassi uno schiaffo.

Ma Carlo non seguì alcuna regola e lo sentii sprofondare nel pieno delle sue forti emozioni.

Io restavo a guardarlo al balcone dell'attesa del mio primo bacio, che sapevo sarebbe arrivato proprio quella sera.

Dopo avermi posato altri piccoli baci sulle guance e vicino alle orecchie sentii che stava cercando il coraggio per osare di più e in preda alla mia impazienza voltai verso di lui il viso proprio mentre lui muoveva le sue labbra verso le mie e fu così che esse si sfiorarono per un attimo, prima che lui si ritraesse e mi stringesse forte a sé.

Avevo ricevuto il mio primo bacio e non avrei mai più e mai più ricevuto un secondo primo bacio. Ma la musica dei violini che sentivo nei sogni ad occhi aperti lì era sostituita da quella della fisarmonica, non ci fu nessuno sguardo intenso e prolungato né alcun sospensione interminabile del tempo.

Ancora una volta quello che io provavo non aveva trovato riscontro nella realtà.

 

Passarono tre anni durante i quali i nostri baci divennero profondi e lunghi, le nostre mani smaniose e sfrontate e scoprimmo tra i nostri vestiti, in piedi contro qualche porta o muro compiacente, il piacere di darci il piacere, pensando l'una al corpo dell'altro.

Era un bel modo di amarsi, immediato e impulsivo, facile e poco compromettente.

Sempre lui mi si appoggiava addosso ed io sentivo il rigonfio del suo maschietto che premeva contro il mio basso ventre.

La primavera risvegliava i nostri desideri ormai sicuri di sé stessi.

Eravamo un gruppo di amici di scuola, anche se Carlo frequentava un istituto, era però ben accetto da noi ginnasiali. Eravamo ancora tutti vergini.

Correva il 1970 e la rivolta studentesca infuriava, vedendoci impegnati entrambi in prima linea.

La parola ' amore libero ' era di uso comune e a ping pong non si giocava più in parrocchia ma nella piccola sede dell'associazione Italia - Cina, dove un bel tavolo sportivo era messo a disposizione di chi, come noi, avesse voluto restringere i confini di questo pianeta.

Anche i miei amici erano in coppia e si parlava di baci, di rivoluzione, si cantava suonando la chitarra, si stampavano ciclostilati, si favoleggiava di metodi anticoncezionali.

Io e Carlo eravamo l'avanguardia della libertà sessuale con le nostre pratiche più disinvolte, mentre gli altri si erano fino a quel momento limitati ai baci.

Egli cominciò a dirmi che avessi voluto fare l'amore ' sul serio ' con lui, ne sarebbe stato felice.

Io ero scossa da un desiderio continuo di provare e riprovare quel brivido di piacere che mi dava gioia: non era il corpo di lui che mi risvegliava, ma il mio che risvegliava se stesso.

Sapevo che volevo provare quella emozione di cui parlavano tutti e mi batteva il cuore nell'immaginarla: ma ai sogni romantici che avevo fatto sul mio primo bacio, ora l'avvicinarsi al primo rapporto completo era come un distintivo rivoluzionario, esattamente come fumare sigarette, che io trovavo solamente sgradevoli e puzzolenti, o bere whisky di marca scadente.

I genitori di Carlo avevano una casetta in collina, abitata da una famiglia di piccoli contadini che tenevano qualche gallina e una vigna di vino rosso. Nella stanza riservata alle mangiate pantagrueliche di piadina e maiale ai ferri, annaffiate da abbondanti libagioni, c'era un camino rustico e un vecchio divano di fianco al tavolo, molto semplice al quale stavano appoggiate sedie impagliate.

Era maggio, ma quel pomeriggio pioveva.

Noi, incuranti, sulla fedele vespa, arrivammo fin lassù e ci facemmo accendere il fuoco dalla contadina, che era nostra amica e nostra complice: i suoi occhi ammiccavano maliziosi, come se leggesse apertamente le nostre intenzioni.

Dopo averci servito una merenda di pane prosciutto e vino, se ne andò adducendo la scusa di certi suoi mestieri e mentre usciva dalla stanza, tirandosi dietro la porta, cogliemmo il suo sorriso complice e tenero: sicuramente stava ricordando la ' sua ' prima volta.

Non ci furono grandi discorsi tra noi, né dichiarazioni: il vino mi faceva girare la testa, il resto lo fece la primavera.

Quando, sdraiati su delle coperte stese davanti alla fiamma ardente, tolti i vestiti bagnati e rischiarati solo dalla luce del fuoco, Carlo mi fu sopra e spinse il suo membro eretto contro di me, io allargai le gambe e chiusi ancora di più gli occhi: la mia verginità era come un peso di cui liberarsi prima possibile, era come il retaggio di una società ormai superata e vinta; sconfiggerla sarebbe stato come liberarci da vincoli ancestrali.

 

Io volevo, ma la magia dei sogni non era neppure entrata con me in quella stanza oscurata.

La sua erezione si ammorbidì un po' mentre, emozionato, cercava di penetrare una donna per la prima volta nella sua vita: egli mi aveva precedentemente toccato sul bottoncino sapiente ed io stavo desiderando quella pace che mi portava sempre il culmine del piacere, ma quando dopo un po' di tentativi maldestri riuscì a penetrarmi con la prima parte del suo membro, l'eccitazione che sentivo sparì completamente.

Percepivo il suo corpo pesare sul mio, capivo che lui stava vivendo una forte e magica emozione, ma io non provavo nulla, ma nulla dentro di me, neppure il tanto proclamato dolore della deflorazione.

Non una goccia di sangue, non una goccia di fluidi dalle mie mucose interne secche e immobili: ascoltavo il suo respiro concitato aspettando il suo orgasmo che venne in poco tempo.

Lui gemette lievemente, si fermò, si rilassò e si staccò da me: ecco, avevo fatto l'amore per la mia prima volta. Lui si sollevò un po' per guardarmi e commosso e raggiante mi chiese se mi era piaciuto, io gli risposi sorridendo con la più grande delusione stretta nella mia gola: ' Sì, tantissimo, amore. '

 

CAPITOLO

 

QUARTO

 

 

 

I GEMELLI SI

 

SONO RIUNITI

 

18 settembre – 03:58

 

- piano americano -

 

 

Il giorno in cui sono nata, primo febbraio 1955, la luna si trovava nel segno dei gemelli.

I gemelli sono due persone distinte, ma nel caso in cui essi siano nati dal medesimo ovulo, sono un esempio mirabile di quanto nostra madre natura sia sempre uguale a se stessa e sempre totalmente diversa.

Non esistono due granelli di sabbia, due gocce d'acqua, due fiocchi di neve completamente identici.

Ogni impulso creativo racchiude una unicità irripetibile.

Due gemelli mono - ovulari sono praticamente identici nell'aspetto esteriore, spesso così identici che bisogna conoscerli profondamente per distinguerli l'uno dall'altro e a volte solo loro stessi possono rivelare la loro vera identità.

Anche il loro modo di fare è speculare, i loro gusti lo sono, le loro voci: vedendoli muovere si ha l'impressione che un' unica mano guidi i loro corpi, tanto sono fusi insieme: talora l'uno comincia una frase e l'altro la porta a termine, fanno gesti come se le mani fossero due e non quattro.

Il loro legame affettivo ed energetico è così forte che se pure molto distanti provano le medesime sensazione, anche fisiche. Se uno dei due sta male, l'altro soffre dello stesso dolore. E si parlano senza emettere suoni, si parlano con l'unico sangue che ha circolato nei loro corpi all'unisono, spinto dal battito della madre comune.

 

Io sono la gemella di me stessa, o meglio, il gemello di me stessa, ma al contrario dei primi che hanno due corpi e una medesima personalità, io ho un corpo con due personalità gemelle: uno maschio e l'altra femmina.

Fino ad oggi ora l'una ora l'altro hanno avuto il sopravvento, a volte si sono parlati tra di loro, a volte e per lungo tempo, ignorati.

Un momento, si nascondevano reciprocamente, l'altro si palesavano, in una occasione l'una compiaceva l'altro, nella occasione opposta l'uno ostacolava l'altra.

 

Il mio gemello femmina è virile, insicura, aggressiva, vivace, estroversa, pratica, protettiva, il mio gemello maschio è effeminato, tenero, gentile, sicuro di sé, dolce, fragile, indipendente.

Hanno il medesimo volto ma due nomi diversi: Arianna e Ariele.

Dal giorno della mia nascita dividono le ore centellinandole l'uno per l'altra, facendosi scudo reciprocamente, separandosi, pure restando indivisibili. Se Ariele è innamorato, Arianna sospira e si invaghisce dell'oggetto amato dal gemello, se Arianna è innamorata, Ariele si insinua tra le sue parole e i suoi gesti, smussando le spigolosità della gemella.

Sono entrambi omosessuali: Arianna ama le donne, Ariele ama gli uomini e quando ambedue amano la stessa persona, lei ama la sua parte femminile, lui quella maschile.

Spesso i due inseparabili bisticciano tra di loro, a volte si fanno dispetti o scherzi, sembra che vadano molto d'accordo e siano complici, ma restano sempre due persone che vivono in maniera indipendente e personale il medesimo corpo.

Se parlano all'unisono emettono comunque suoni su di una ottava diversa: sono stati sempre due, mai uno.

Oggi Arianna e Ariele si sono sciolti nella voce ritrovata della mia amata, nell'emozione per un ritorno atteso ma incerto, in una inedita arrendevolezza: la luna in gemelli è entrata nello scorpione, pianeta della passione e della ineluttabilità.

Ariannele ha visto la luce.

 

CAPITOLO

 

QUINTO

 


 

SEMINA E

 

RACCOLTO

 

 

12; 44

 

- piano americano -

 

 

 

Tutto è possibile se la nostra energia vitale vira verso la direzione da noi scelta con la mente e i desideri.

Sto danzando.

La musica mi avvolge e mi solleva, rende il mio peso impalpabile, l'aria mi sorregge come braccia amorose e forti.

Intorno a me le note sono gocce di mercurio, sono onde di nebulose. Io ancora esisto, esisto, ancora esisto perché ho messo le mie braccia attorno a lei, ho raccolto la sua parola tra le mie labbra, la sua luce nei miei occhi.

Se lei fossi qui, non sarebbe più forte. Le distanze non possono fare muro contro un flusso che si infiltra senza peso attraverso il vuoto.

La mia danza ha la velocità rettilinea della luce, penetra come acqua in un tessuto, si spande come un suono nel silenzio, che non è più silenzio, ma neppure il suono stesso: dall'unione nasce un nuovo immenso silenzio ornato dalla filigrana del suono.

La roccia diviene sabbia, il vento, spuma di onda, la linfa succo verde di foglia, l'ossigeno sangue pulsante che scorre.

Il tempo è tra le mie mani, immobile e immenso, scorre in circolo e ritorna al punto in cui io l'ho afferrato.

Attorno a lei la mia fede in noi, la mia preveggenza e la mia costanza.

In me pulsa la sua voce: l'altoparlante del telefono mi penetra in ogni vibrazione ed è l'enzima che scioglie la membrana dei mie nervi scoperti, lasciando passare la scossa elettrica dell'emozione.

ino alla radice del mio ventre.

Ogni singolo fonema emesso dall'aria mossa dalle sue labbra si appoggia sulla mia determinazione di accoglierlo dentro di me in modo che possa lasciare un segno indelebile e indimenticabile.

La memoria di ogni sua parola si intreccia e si fonde con ogni mia parola e pensiero, con l'acqua che ho bevuto dal giorno in cui è entrata nella mia vita ed è stata assorbita dai mie tessuti, gonfiandoli, con il cibo dissolto in ogni fibra. Così io esisto, attorno a lei, dentro di lei, unica nella sua unicità: io non sono più io, lei non è più se stessa.

 

NOI è un frutto di melograno.

Tutti i frutti caduti a terra che hanno messo il loro seme nel mio grembo profondo di madre creatrice, si rinnovano nel rubino dal succo dolcissimo.

Non pensare, amore mio, il tuo desiderio si compie oltre il volere della tua mente. La vibrazione della tua vita si espande dove trova il mio vuoto caldo che l'accoglie.

Danza in me, con me.

Vesti i miei piedi scalzi con i tuoi piedi scalzi, assaggia lentamente la sabbia della distanza ricoprendola in un istante infinito.

Le mie braccia intorno a te sono un'alchimia di pietra filosofale. Sono il trasmutare della materia in cristallo, attraverso l'inclinazione degli angoli elettronici.

Lo spin del nostro volere si specchia in ogni protone che posa il suo sguardo su ciò che lo sta attraendo con la sua forza atomica.

Tutta l'aria filtrata dai nostri polmoni è ora qui, morbido muschio azotato a sostenere i passi silenziosi dei nostri pensieri senza fine.

Io sento che quello in cui credo è plasma che scorre e si inebria in te, vedo che ciò che tu emani è un iride cangiante impressa nella retina di ogni mia cellula.

NOI siamo giunte qui, non altri, realizzando l'immutabilità di miriadi di cambiamenti.

Quel giorno in cui il mio nome si dipinse nella tua intenzione, hai preso in mano la spatola di questo affresco composto che ora è la nostra danza.

Volevo danzare ancora, nonostante la mia immobilità, lo volevo fortemente.

Il potere del mio volere ha creato un tappeto folto di spazi dove tu ti adagi in ripetute raccolte di impeti.

Così ancora esisto e danzo, sorretta dalle tue gambe forti, dove le mie, immobili, trovano accoglienza, così tu esisti e danzi nell'udire la sordità del tuo cuore annullata nell'amplificazione del mio amore.

 

 

 

DI DUE, UNO - 2011 olio su tela 13 x 18
DI DUE, UNO - 2011 olio su tela 13 x 18

 

CAPITOLO

 

OTTAVO

 

 

 

LABBRA

 

20 settembre

 

  • piano americano -

 

Da sei mesi lei ha i miei numeri di telefono. E' nata e abita in questa isola rocciosa, a trenta chilometri dalla mia casa.

 

Poco dopo il mio ingresso su Facciadalibro, il 29 marzo di quest'anno, le sue parole spiccarono nella mia bacheca, troppo pungenti, come angoli acuti, perché io potessi non notarle.

Il suo ingresso mi colpì nel luogo delle intersezioni misteriose, ma sempre più chiare, che mi sbattono da una volta all'altra dell'infinito, aggredendomi, ineluttabili di verità, forza che non ammette repliche né tentennamenti.

Mi afferra proprio quando ancora non capisco bene i meccanismi che reggono quello spazio nel web, quando i contatti sono già tanti da poterli non notare, quando io sono perduta nella consapevolezza che quel volo da quella scala sarebbe rimasto padrone dei miei giorni da lì in avanti.

Però lei è così penetrante che si insinua tra le strette maglie della mia ruggente disperazione e giunge dritta al bersaglio.

Eugenie.

 

Era stato il mio editore, Walter Manzoni a suggerirmi di iscrivermi su Facciadalibro. Io ero così legata al forum di Miss 777 che non pensavo potesse esistere un altro luogo al mondo dove avrei potuto trovare una famiglia così accogliente come quella delle donne e ragazze lesbiche che mi avevano sostenuto nella catarsi da Dana, nei miei passaggi tra le dimensioni, lungo le mie fughe da questo pianeta.

Il mio primo libro usci a fine gennaio, ma fu solo alla fine di marzo, quando entrai in un letto dal quale non sarei più uscita, che seguii il suo consiglio.

Ricordi molto incerti e fumosi avvolgono i giorni dalla fuga da Dana fino al maggio di quest'anno: quasi due anni di una esondazione sulla quale si ergono solo alcune punte di campanili.

Il suo nome, Eugenie, è uno di quelli.

 

Io non andavo mai sulle bacheche dei miei contatti e non lo faccio tutt'ora, tutta presa dai miei impulsi creativi.

Io scrivevo, cercavo amicizie e aspettavo, ma il progetto incentrato sul mio libro si trasformò immediatamente in ben altro: parlavo di me stessa, volevo dare qualcosa e me stessa era la sola cosa che avevo.

Le persone venivano a me, ogni giorno più numerose, ogni giorno più presenti nella mia giornata. I nick divennero voci al telefono, immagini sulla cam, affetti sinceri.

L'amore trova ovunque strade lastricate dove far correre il proprio carro di sfondamento.

 

Eugenie controbatteva ogni mia pagina, a volte aderiva alle mie parole trovandone di sue per allinearle dentro di sé, altre, creava distinguo basati su fili sottilissimi di tele di ragno, sui quali allineava pensieri come gocce di pioggia.

Quando vedevo il suo avatar a fianco dei mie scritti, sorridevo tra me e me e leggevo immediatamente le sue parole, originali come rami di corallo di cui la sua terra si orna in frastagliate barriere.

Presto si affacciò alla pagina dei miei messaggi privati e cominciò a raccontarsi, esprimendo il desiderio di rispondere al dono della mia vita che io le facevo, con quello della sua.

Ella pure non è di qui, e la spiaggia di Antron porta le impronte dei suoi passi, che lei ritrovò alla lettura del mio riviverla.

Desideravo incontrarla, e lei promise di venire a trovarmi, come pure promise di telefonarmi, ma i giorni scorrevano, i nostri vasi divenivano sempre più comunicanti, ma lei restava un flusso di parole al margine.

Si scherniva di preferire posizioni subalterne e non raccolse i miei inviti a divenire protagonista di qualche mio progetto telematico.

Io continuavo a sorridere ogni volta che il suo nome, che esprimeva la buona nascita, mi appariva sullo schermo del computer e non mi chiedevo affatto perché ancora si ritraesse: la forza della predestinazione è ammantata di nero.

 

Ieri sera al telefono una voce di giovane donna chiede del mio reale nome di battesimo: il mio cuore mi colpisce e il suo nome affiora in una esclamazione di gioia in risposta alla sua domanda se potessi immaginare che lei fosse.

 

' Ma come facevi a sapere che ero io? ' si stupisce lei.

 

Come facevo? E' proprio vero che io non sono di qui.

Parliamo a lungo, più di due ore, riandando ai temi già affrontati e mai conclusi: nelle numerose affinità spiccano i nostri peculiari metri di giudizio, quelle energie di aggregazione che creano infinite sfaccettature della medesima realtà. Scopro la sua voce del tutto attinente all'immagine che la mia mente ha di lei e sento che la mia si abbassa al tono della sua, naturalmente più profonda, come una corista che segue il comando de' ' insieme '.

Le nostre parole si intersecano, si accompagnano, si fanno spazio vicendevolmente, senza mai accavallarsi né coprirsi, come affondi di allenamento tra due affiatati compagni di tennis.

Lei sa molto di me, ricorda tutto quello che ho scritto, come se lo avesse appuntato su di un taccuino e ne leggesse gli asterischi; io ricordo meno, ma sento.

In diversi messaggi precedenti le avevo chiesto di sposarmi, in quel gioco di esprimere profonde convinzioni e impulsi mascherandoli di facezie. Lei aveva rifiutato gentile e arguta, protestando una sua impossibilità di amare ancora.

I suoi racconti di sé non mi avevano svelato molto della sua vita quotidiana, né io le avevo mai posto domande dirette: non c'è niente di più bello di un dono spontaneo e nulla al mondo mi porta ora, dopo aver ricevuto così tanti rifiuti, a privarmene.

Nelle nostre ultime confidenze, finalmente, avevamo affondato la lama, rivelando la nostra affinità più grande: per entrambe in amore vale come legge il numero tre.

 

L'orchestra della mia vita ha ricevuto in dono un altro spartito per primo violino solista.

 

  • Campo lungo -

 

Entrai in quella casa che conoscevo così bene come varcassi quella soglia per la prima volta, i timpani del cuore in piedi in un ' fortissimo ' prolungato.

Trovai Stefano, l'ornamento dei mie vent'anni, che mi attendeva sorridente. Imparai a riconoscere bene quella sua espressione di noncuranza con la quale nascondeva l'eccitazione più forte, che in quel preciso momento mi passò un laccio fremente ai polsi, dal quale di divincolai solo quando la piccola Chiara si appoggiò penetrante alla mia schiena.

Come se nulla fosse diverso, mi chiese se volevo qualcosa da bere, mi versò un calice di vino bianco e poi mi prese per mano e senza aggiungere una parola mi indusse a seguirlo su per le scale che conducevano al piano superiore.

La penombra mi attirava a sé sospirando dalla porta socchiusa della camera da letto.

Marina era lì, completamente nuda e sdraiata sul lenzuolo bianco, gli occhi accesi di un caldissimo riflesso che non avevo mai visto sul suo volto scarno e allungato.

I suoi neri capelli riccioluti si spandevano sul cuscino come un fiorire di alghe marine. Vedendoci entrare, rivelando l'attesa silenziosa e prolungata che aveva preceduto il nostro ingresso, tese le braccia sorridente al marito che le stava recando per mano una nuova proposta di piacere.

Stefano lasciò la mia mano e si distese accanto a lei, baciandola sulle labbra grandi con affetto e poi volgendosi a guardare me, che, in piedi contro la porta, immobile, mi scolpivo quei fotogrammi nella memoria.

Una nuova prima volta.

 

 

  • piano americano -

     

John Lennon canta ' Woman ' dal mio computer, mentre scrivo, senza che nessun desiderio si accenda in me a quel ricordare.

 

  • campo lungo -

 

Marina svestì il suo sposo della camicia e dei pantaloni, degli slip, come si fa con un bimbo per prepararlo al bagno in una giornata di caldo estivo. Le sue mani decise poste in primo piano in snelli movimenti sembravano spogliare anche me.

Mi guardavano fissi mentre carezze che ben conoscevano le vie dove i nervi affioravano, affrettarono la loro respirazione.

' Guarda cosa ti ho portato stasera. Una nuova amica per le tue voglie! '

Le parole di Stefano erano calcolate nel sottolineare l'impudicizia della sua offerta.

Quindi si sporse verso di me e afferrandomi per un braccio, mi trascinò in mezzo a loro.

Quattro mani si presero cura dei mie abiti e della biancheria, come intente ad accordare una chitarra.

Io non pensavo, sospesa sui loro sorrisi di predatori.

Stefano mostrò un mio seno, grande e chiaro, alla moglie perché lo guardasse ed ella lo fece come ammirando un quadro di un pittore famoso in esposizione su di un cavalletto, al centro di una grande sala bianca.

Le ordinò di baciarlo e lei pose inedite labbra di donna dove pochissime altre labbra di maschio si erano abbeverate.

Sentii la grana un po' ruvida della sua pelle caldissima sfiorare la mia, liscia e fresca accendendosi ancor di più a quel contrasto, e chiusi gli occhi per ascoltare la mia risposta.

Quello che trovai nella cassapanca dischiusa del tatto, fu un silenzio di assorta attesa.

Le labbra di Marina dal mio seno silente risalirono lungo le spalle e il collo fino alla mia bocca.

 

  • Zoom -

     

Io e Tati avevamo sedici anni.

Lei era piccola, molto magra, di carnagione scura e capelli lunghi inanellati e corvini.

Gli zigomi sporgenti da sioux portavano a due occhi di castagna, lucidi e sgranati, in una eterna spaventata domanda.

Le sue labbra marcate erano sporte in fuori senza che lei le atteggiasse, sempre dischiuse su denti regolari e bianchissimi.

Tutto il suo corpo sottilissimo emanava fragilità e forza miscelate come sale e pepe.

Io la proteggevo col mio portamento sicuro e spavaldo, allargando ancora di più le spalle già molto larghe e orgogliose.

Correvo da lei ogni giorno, pronta ad assecondarla in tutto, come i suoi desideri fossero il fine ultimo delle mie ore.

L'amore per il bel professore di latino e greco mi trasportava con prepotenza lungo salite e discese tra un giorno e quello seguente.

Carlo era stato allontanato, con dispiacere ma fermamente: come era possibile amare due persone contemporaneamente?

Tati ascoltava i miei sogni d'amore, circoscriveva le mie sofferenze, arginava le mie lunghissime attese.

E io stavo lì, ai suoi piedi, offrendomi come fermo gradino al suo passo lieve.

Mangiavamo insieme, dormivamo nella stessa camera, sul lettino a castello, io al piano di sotto ad ascoltare il suo respiro che dormiva, i movimenti delle sue gambe tra le lenzuola.

Andavamo in bagno insieme: le prime volte io mi vergognavo perché ero stata abituata ad una rigorosa privacy, ma lei scardinò il mio pudore con una naturale disinvoltura. Guardavo i suoi fianchi stretti sgusciare fuori dai perenni jeans della nostra adolescenza, e sedersi senza essere infastiditi dai miei occhi che si concentravano sul pube ricco di riccioli neri.

Lo scroscio sulla bianca ceramica si mescolava alle nostre voci allegre, mai stanche.

Mi sentivo orfana se per un giorno non potevo vederla e stare con lei, mi sentivo triste quando lei lo era, incredibilmente felice quando lei sorrideva.

Quando ci salutavamo perché io dovevo tornare a casa mia, Tati mi accompagnava per il lunghissimo corridoio rivestito di parquet morbido e caldo, apriva il catenaccio di ferro del pesante portone di scuro legno massiccio e mi salutava ogni volta con un bacio, che io ricambiavo leggera ed estatica.

Quella sera d'inverno fredda e scura di pioggia, le sue labbra si posarono sulle mie.

 

  • piano americano -

 

Sulle mie labbra, ora, l'ultimo aspro violento penetrante totale bacio di Dana.

Il profumo del respiro di Sara che volge le sue labbra lontane dalle mie.

Il ricordo del contatto prolungato non ancora avvenuto con le labbra sconosciute di Eugenie.

 

  • zoom -

 

Non bastò la superficie di tutti i pianeti delle galassie e di tutti i corpi celesti lontanissimi per accogliere le mie labbra contro le sue.

 

 

CAPITOLO

 

DODICESIMO

 

 

 

NON PUO'

 

SEMPRE PIOVERE

 

PER SEMPRE?

 

24 settembre

 

  • piano americano -

 

Vestita di pioggia.

Lacrime asciutte sul viso sulla mia pelle riarsa.

Non sono più nulla.

Le parole congelate nella delusione.

I silenzi procrastinati troppo a lungo.

La resa respinta sempre vincitrice.

Scompiglio di incomprensioni.

La labbra morse sono rive di cactus vivi per la mia lingua che le percorre incessante.

Il pallore delle mie guance è specchio della luminescenza lunare.

Il terrore provato solo una parvenza del lungo cammino su cocci di bottiglia a tagliare piedi di bimba.

L'innocenza è violata da un innocente.

L'amore ucciso da un innamorato.

La verità bestemmiata da una mancanza di menzogna.

La luce oscurata dalla fiamma più accesa.

Il freddo scacciato dalla glaciazione più profonda.

L'immobile mi corre incontro e percorre vie conosciute a lungo.

L'ineluttabile diventa irrevocabile certezza.

Non potrà piovere per sempre?

Stanotte crollano i pochi campanili sporgenti dal piano dell'esondazione.

I proiettili scagliati velocissimi a pochi millimetri da me alzano sbuffi di polvere calcinata.

Il nulla è ricolmo di assenze.

Il salto nel vuoto ripetuto all'infinito.

La resa l'unica soluzione.

 

Può piovere per sempre.

 

 

 

CAPITOLO

 

TREDICESIMO

 

 

 

SEI ENTRATA

 

DENTRO DI ME E

 

 

QUI TI TENGO.

 

  • piano americano -

 

26 settembre

 

I confini conosciuti sono stati valicati.

 

La grande spiaggia asciutta e desolata è scomparsa sotto una coltre liquida di dissoluzione.

Ogni parete implode al tocco di questa marea, ogni valico si colma, ogni valle si eleva, ogni vetta si spiana.

Le voci si riempiono di silenzio, i silenzi cantano.

La fame si cheta, l'attesa si infrange, tutto è compiuto.

Chi doveva arrivare è giunto, non uno più si sottrae all'appuntamento.

Ritiro l'esca..

Questa è l'ultima cena.

I pesi e le misure sono definite, in egual misura per i commensali, il pane spezzato, il vino si adagia nei calici.

La mensa è ancora di carne viva, di grida, di sangue che scorre, di lacrime che bruciano.

Il quarto cavaliere dell'apocalisse galoppa sulle praterie del destino.

 

Chi ha dormito nel mio letto, mangiato alla mia tavola, bevuto dal mio pozzo è un ferreo carro di dolore: le sue ruote segnano l'erba tenera e vergine che mai piede umano aveva calpestato.

 

La legge che guida è incommensurabile e incomprensibile per la mia pochezza: posso solo accogliere la certezza che ella esiste e non ha bisogno del mio consenso per agire.

Il mutamento ha scritto una nuova pagina nel libro millenario delle mie membra martoriate.

La strada che ho percorso si è improvvisamente interrotta, la slavina di detriti, fango, rami spezzati, pietre e alberi divelti si estende invalicabile e terrificante ai miei piedi fermi. Intorno non si scorge altra strada.

Non mi resta che fermare i miei passi, sedere sul ciglio di quello che un tempo fu progetto, desiderio, volontà, e restare in ascolto.

Non resta che spandere lo sguardo intorno per segnare nella memoria quanto lì si trova ed è rimasto.

Il dolore rende i piani di osservazione infiniti e frastagliati, dolore che ogni sasso, ogni pietra, ogni ramo, ogni pianta, ogni cucchiaio di fango lancia in grida così sottili da frangere ogni barriera del suono.

 

Troppo dolore smuovo ad ogni mio passo, troppo dolore smuove in me ogni passo di chi calpesta il mio suolo.

Quello di una mano che sfiora l'oggetto del proprio bisogno, lì, a un passo da sé e non riesce mai ad afferrarlo, ma solo e sempre ad allontanarlo ancora un poco.

Né la fame si placa, né la sete.

 

Il libro dei mutamenti ora mi insegna a non mangiare né bere.

 

La vita nutrirà se stessa, la forza che la muove saprà dove trovare quel cibo che io non ho raggiunto e che non so come raggiungere.

Ella saprà e sa quello di cui ho realmente bisogno, ella sa cosa elargirmi.

Se questo smarrimento, questa dissoluzione totale, questa incredula incomprensione delle cose mi elargisce, io di quelli mi pasco.

Né il ricordo di migliore vivanda mi allieta e mi conforta.

 

So di non sapere.

 

 

 

CAPITOLO

 

TREDICESIMO

 

 

 

IO SONO UN

 

ANIMALE

 

  • piano americano -

     

Sento i miei denti che affondano nella mia carne. Le guance e la lingua subiscono un continuo martirio, i denti affondano giusto quel poco che serve a segnare, a mettere a nudo, a rendere ipersensibile, non per creare un dolore acuto, ma uno sordo, sordo e continuo.

E' la lingua stessa che apre e fruga nei piccoli lembi frastagliati della ferita: ferita su ferita, tormento su tormento, cannibalismo di me stessa.

Mangio me stessa da dentro, partendo dalla bocca, mangio chi mangia e chi viene mangiato.

 

Poi un pezzetto di legno aguzzo tra i denti, sulle gengive, a segnarle, marcarle, scavarle. Mentre ascolto il sapore ferrigno di una minuscola goccia di sangue che sorge, come un gayger.

Scavo, ancora scavo, non smetto di scavare, torturare la morbida fresca carne della mia guancia, l'interno delle mie labbra orfane di baci, proprio lì dove i denti hanno inizio, dove sono infissi da una forza di coesione che spezza e taglia e macina e strappa.

 

Sono un animale ferito, imprigionato in una dura tagliola, forte e violenta, che morde la carne lacerata, spezza l'osso e porta alla morte.

Con i miei denti apro lo squarcio ancora di più, lambendo il sangue amaro che ne scorre, tranciando sfilacci di muscoli e pelle arrossata, mettendo allo scoperto l'osso frantumato, mangiando il midollo fuoriuscito, masticando l'attaccatura del tendine alla cartilagine finché non si separa da essa, finché ciò che resta della mia zampa non giace, inanimato e sanguinante, intrappolato tra i denti arrugginiti della tagliola e io lo possa guardare lì disteso e abbandonato, pur sentendolo ancora parte di me, in me.

Muovo qualche passo traballante, devo recuperare un equilibrio spostato: una corsa mi attende.

Il sangue traccia la terra e il fogliame che si apre al mio passaggio, come una scia di lacca rossa sciolta alla fiamma della candela.

Una corsa che sembra senza fine e avrà invece una fine completa. Una corsa verso la morte.

Sento il sangue uscire e abbandonarmi e l'orgoglio della vita si impenna tra le mie spalle mai abbassate. Esso scorre e non si ferma, finalmente. Scorre e segna la terra che ha visto le orme delle mie zampe molleggiate su cuscinetti plantari.

Acri cigolii mi graffiano la cavità profonda dell'orecchio, sento l'aria arrotolarsi nella mia gola.

Ancora un passo e la corsa diventa un canto alla libertà: signora morte, ti do il benservito, tu che credevi di tenermi in scacco con la voglia di rimanere vivo, io ti afferro per le corna e ti trascino con me nella polvere: tu esisti perché io vivo e ora che muoio io possiedo te e mi riprendo intera la mia vita, la mia zampa, il diritto di correre.

Una corsa per la libertà, verso la morte, orgogliosa vita del nulla.

Ti ho chiamato invano a lungo ed ora sei mia: nell'attimo in cui muoio, nasco per sempre.

 

 

IO POETA

 

  • secondo respiro -

     

     

Decubito amaro

di vento

d'oltre oceano

 

 

Preme uno scoglio

riarso

la morsa estrema

della salsedine

 

Asciuga l'alga

fluente

 

La bianca corte di

marinai

dorme

 

Gli occhi sepolti

di sabbia

 

Verrei alla tua mano

se il coraggio

ti sostenesse

a tenderla.

 

 

 

 

 

LUNA E SOLE - 2008 olio su tela 45 x 75
LUNA E SOLE - 2008 olio su tela 45 x 75

 

CAPITOLO

 

QUATTORDICESIMO

 

 

 

LA MONTAGNA

 

 

  • piano americano -

 

 

28 settembre

 

 

La sera è tarda, il buio fitto e lo sconcerto grande.

 

La montagna si erge sulla valle: è impervia e sola, resta sempre in attesa di piccoli scalatori, o del solletico degli stambecchi.

Le nuvole passano in cielo, il giorno succede alla notte e poi ancora il giorno torna e la luce apre il sipario all'alba, proprio là, dove la montagna sembra calare, dove il fianco si inclina più dolcemente verso le rive del fiume che in lei hanno scavato una così profonda ferita fluente e sinuosa.

Le sfumature del giallo dell'oro e del verde sembrano giocare, rincorrersi, confondersi, ritrovarsi e l'ombra disegna sui dirupi e nei crepacci figure sempre nuove e misteriose.

Il muschio aggrappato con le minuscole mani fortissime alle cortecce degli alberi svettanti si accende di piccole gocce d'acqua: lacrime forse?

I declivi si colmano del rombo cupo dei sassi rotolanti tra le radici e le foglie a letto perenne, mentre la tuba del vento si appende all'altalena dei rami allargando silenzi e attese.

I mille rivi di acqua piovana si raccolgono in ruscelli che scendono poi, correndo al grande padre che, senza braccia, li accoglie guardandoli e cullandoli nelle sue correnti segrete e profonde, tra le alghe sui sassi e la sabbia nerastra e grigia di lavagna frammentata.

Si spiccano salti e gorgoglii tra le pendenze improvvise e crude.

Si allentano tensioni e fretta tra le anse calme e dolci.

 

La primavera accende fremiti nascosti e lucida i verdi, ochieggiandoli di fiori.

L'estate arrotonda le valli nel ronzio delle api e nel profumo dei frutti maturi.

L'autunno pennella di caldi rugginosi lampi le foglie in fuga dai rami.

L'inverno si siede, amico, sulla neve e la terra con lui riposa e cresce.

E la montagna si stende su ogni stagione con il suo fianco gravido e molle, con l'ombra delle nubi a disegnarne la pelle e i capricci del sole a scaldarne le forre buie e nascoste.

Tutto intorno si trasforma e cambia mentre la montagna è là ferma.

Essa, però, sente i suoi ampissimi piedi scivolare lentamente sulla crosta terreste e la crosta terrestre si sente galleggiare sulle acque e le acque si sentono ruotare attorno al nucleo, chiamate dalla luna, mentre il nucleo, si avvita attorno all'asse. L'asse poi rivoluziona attorno al sole, mentre il sistema solare percorre la via lattea, nel tempo in cui la via lattea affonda nella galassia e le galassie rotolano le une sulle altre camminando nello spazio cosmico, attratte ed ingoiate dai buchi neri, espulse nelle esplosione delle super nova, mentre la danza dell'espansione è infinita attraverso le mille dimensioni e le miriadi di mondi.

 

Io, seduta ai piedi della montagna, sento in me tutto il dolore e lo sconcerto di non sapere, di non arrivare, di non abbracciare.

Filtro lembi di solitudine ardente gelarmi i pensieri bagnati di lacrime.

 

Nell'ululato del vento il mio grido fora le stelle, a rincorrere la risposta che si cela dietro la cortina chiusa di ogni trascorso, lungo le ore smarrite nell'attesa di chi non è più tornato o di chi non è mai giunto.

 

Può la mia voce scuotere a compassione quella mano, che si chini e mi sollevi fino a portarmi in salvo?

Può la mia piccola lacrima distinguersi in quest'oceano di sangue?

Può la mia domanda accorata ricevere la risposta da chi non può udire, sordo di nascita?

 

La montagna resta a guardare, il capo tra le nubi, sognando di un monte ancora più grande che l'accolga, l'accompagni e protegga.

Io, appoggiata alla mole delle mie intenzioni, resto a guardare la tragedia espandersi tra le scalinate del teatro greco in spire ed ellissi di preghiere.

 

 

CAPITOLO

 

QUINDICESIMO


 

 

IL SUPPLIZIO DI

 

TANTALO

 

 

- piano americano -

 

 

La roccia è solida, forte, granito di petali di maggio e luccichii di madreperle.

Nei polsi scarniti, tra le vene indurite e segnate da lame, coltelli, aghi e filo, i ferri dei ceppi di antiche prigionie scrivono ad ogni attimo una parola nuova, sempre la stessa, una biscroma dissonante, una sincope di ritmo sinfonico, un assolo improvviso sul silenzio.

Le catene rugginose e macchiate del mio sangue essiccato dalle lacrime intrise di polvere, tese allo stremo della loro incorruttibile elasticità, recano all'anello di congiunzione strappi violenti al condilo innestato nell'atlante della possibilità.

Gli omeri distorti da sforzi estremi e allungati nell'imperioso anelito, tendono braccia smagrite dalla pelle coriacea di mais essiccato al sole.

Le mani solcate dalle azzurre vie del sangue visibile ma sepolto nei tessuti, sono radici centenarie che si arrovellano, fibroso su cribroso, in uno scambio di azoto ossigeno e luce solare, catturando gli enzimi e la forza atomica per la clorofilla.

Le dita scandiscono nodi di falangi e stacchi improvvisi e inevitabile di unghie ad artiglio smodato, afferrando l'aria come squarciassero il ventre che le nutre.

Le labbra sono risucchi, mulinelli di piombo, limatura di ferro su lievi sanguinanti ferite fresche, appena inferte, accanimento di raspe e denti su carni infantili non protette da occhi materni ed esposte al ludibrio del maschile insano desiderio.

Lo slancio di un corpo raccolto tra mani e definito tra labbra, resta fisso e spezzato dalla lancia inutile e amara.

Lo sforzo esplode in lampi di violetto magnesio, che impazziti solcano e definiscono al nervo ottico la curvatura del bulbo oculare.

La fatica appesantisce il muscolo cardiaco di tonfi straziati, espansi fino alla gola e diretti alle caviglie, alle quali mancano forza, appoggio e resistenza.

I polmoni sono spugna di mare strappata dagli erpici dello strascico, intenti a raccogliere un bottino di pesci e crostacei che inaridisce la matrice.

 

Il frutto è sfiorato.

La superficie dell'acqua lambita.

Ma né fame né sete trovano ristoro.

 

Ogni secondo scandito dall'inesorabile falce del tempo segna un progetto immenso ed un infinito fallimento.

Il nulla si riproduce nel nulla, il sempre nel sempre, il mai nel mai.

L'otto, l'abbraccio senza fine, è protratto con la perdita, nella liquida sconfitta si forgia sfrigolando il ferro incandescente di martello sull'incudine e fiamma di mantice.

 

Io che non ebbi madre, che persi mio padre, che non conobbi sorella e vidi il perenne diniego dell'unico fratello.

Io che ho partorito figli, li ho uccisi e poi abbandonati in terra sconsacrata, attendendo invano il loro ritorno, portando invano il fiore appena colto alla vetta del mio turrito roseto ad un sacello senza lapide e nome.

Io, che ho spento nelle vene tagliate il comandamento dell'eterno: non avrai altro dio all'infuori di me.

Io che ho voluto essere dio di me stessa.

Io, infissa alla parete, senza scampo, senza fine.

 

Il supplizio di Tantalo sorge ogni giorno al suono del mio primo respiro.

 

CAPITOLO

 

VENTITREESIMO




LA QUADRATURA

 

DEL CERCHIO

 

DELLA

 

DISILLUSIONE



  • piano americano -

     

13 novembre, 8:49

 

Nulla ha senso.

Da giorni e giorni queste sono le uniche parole che hanno un senso nella mia mente e al mio cuore.

Scavare.

Non ho fatto altro, con zampe scortesi e frenetiche, le unghie spasmodiche nel raschiare ogni lembo di vecchio, di ammuffito, di incancrenito, nel sollevare tappeti e scostare mobili da sempre addossati a muri intrisi di ricordi.

Senza pietà né vergogna, senza remissione.

Gli altri ed io, io e gli altri.

La mia esistenza è un immenso foglio bianco sul quale è tracciato un cerchio ed ogni persona che ho incontrato, anche per un attimo, intravista e neppure notata attraverso i finestrini di un auto o lungo una via, nel deserto di una piazza o nel coro di un bosco, ogni esistenza è un cerchio che interseca il mio, formando piccolissime o immense aree di intersezioni, ognuna dal colore particolare ed irripetibile.

Più volte ho provato a farlo, questo disegno, ma è un lavoro troppo difficile e vasto per le mie povere forze martoriate dalla mia accesa immaginazione e capacità di vedere oltre.

Scavando, le zolle sono volate via, il tappeto erboso si è squarciato, l'ordine del giardino è stato divelto dal profondo.

Stamattina siedo sull'orlo di questo scompigliato cantiere e guardo il risultato del mio lavoro e l'unica certezza che esala nella nebbia della raccolta mattinata novembrina è: nulla ha un senso.

Oltre le piccole contingenze, oltre fatti fattacci e fatterelli, oltre verità, mezze verità e menzogne, oltre gli avrei e vorrei, oltre i se e i forse, i no e i si, c'è che io ci ho sempre creduto.

Ho creduto di essere viva, di stare facendo qualche cosa; ho creduto di essere figlia, sorella, di studiare, imparare crescere e poi innamorarmi, amare, essere madre, lavorare essere compagna, amica, conoscente, vicina di casa.

Ho creduto di parlare ascoltare ed essere ascoltata, ho creduto alla mia ombra proiettata nella sabbia, all'orma del mio piede impressa nei terreni che questo ha calcato.

Ho creduto nei colori che ho visto e nelle parole che mi sono state dette.

Mentre invece nulla esiste.

La macina, il frantoio del tempo tutto rende poltiglia in quel miasma assordante di silenzio che gli esseri umani chiamano ' ricordi '. in quella oscura cisterna che viene chiamata ' impressione ' sia essa della luce sulla retina di un bulbo oculare, che nel sentimento che lascia una traccia indelebile.

La prima, l'ultima impressione.

Alla fine di ogni giorno tutto viene stravolto e nessuna realtà, nessuna verità esiste più, ma resta solo ed esclusivamente l'idea che noi ci siamo fatta di essa.

Un'idea così infinitesima e piccola, così parziale e privata da essere scandalosa.

Quell'idea assurge a totalità dentro ognuno di noi, diventa la legge, diventa l'arma che impugniamo in ogni parola e pensiero.

E usciamo con la non chalanche di un pistolero incallito a fare nuove vittime, a maciullare nuovi momenti trasformandoli nella purea del nostro non sense.

Io credevo di amare, credevo che le presone che credevo di amare credessero nel mio amore, lo sentissero, lo vedessero.

Tutta questa illusione ha creato il profondo lancinante dolore che intesse del suo sconvolgente amarissimo ferino sapore ogni mia fibra.

Nessuno ama, nessuno ascolta né viene ascoltato.

Siamo prigionieri di un ingranaggio così grande che neppure questo conosce se stesso.

Ogni causa produce un effetto e la ragnatela di queste intersecazioni, la mutevolezza di queste intenzioni occulte è così vasta che neppure una parola, un piccolo pensiero, un moto della mano,è puro e fine a se stesso.

Tutto ha una ragione, ma nulla ha un senso.

Nulla è abbastanza piccolo da permettere alle nostre mascelle di accedervi per trarne un piccolo boccone tranciato con un morso deciso e disperato, intento a saziare questa fame ineluttabile.

Non sono il primo essere umano a dichiaralo, io l'ho studiato questo concetto, ma stamattina l'ho finalmente fatto mio: tutto quello che esiste è IL NULLA.

Che resta da fare allora?

Mangiare, bere, dormire, respirare, fino a che quello stesso respiro si spezzi e finalmente il manto del nulla si riveli e mi culli.

Mi porti via, mi elimini facendomi, allora sì, diventare reale e universalmente in linea con il nulla che ci produce e ci guida, che ci incatena a leggi incomprensibili.

Cercare di capire, di resistere, cercare di amare, essere amata, ascoltare essere ascoltata, attendere ed essere attesa è assolutamente vano e inutile come svuotare il mare raccogliendolo con un cucchiaino e mettendolo in un secchiello bucato.

 

 

 

LEONA - 2009 olio su tela 35 x 45
LEONA - 2009 olio su tela 35 x 45

 

CAPITOLO

 

VENTIQUATTRESIMO

 

 

 

LA DONNA CHE

 

AMO

 

  • piano americano -

     

17 novembre, 18;35

 

La donna che amo è immensa.

 

Non ha un volto perché di un volto non ha bisogno, dato che nessuna fattezza umana può racchiudere in angusti margini la sua bellezza.

 

Non ha una bocca, perché il suo bacio divorerebbe ogni fragile labbro e renderebbe muta ogni mobile lingua.

 

Non ha denti perché la neve non potrebbe che sciogliersi di fronte al candore dei suoi.

 

Non ha occhi perché non vi è oceano così profondo, non vi è fossa o vetta che raggiunga le infinite altitudini che si aprono all'ombra delle sue ciglia.

 

Non ha mani perché le sue sono di pioggia, e sottili e dalle dita così affusolate che nessuna arpa o pianoforte potrebbe reggere alla grazia del suo tocco.

 

Non ha parole perché tutta la saggezza non le esprime, tutte le lingue dell'universo non le contengono, tutte le voci degli angeli non possono pronunciarle.

 

La donna che amo esiste e vive in me.

 

Io la cullo la notte come una madre assorta e tenera stringe a sé la creatura appena partorita dal suo ventre maturo..

Io veglio il suo sonno silenzioso come la luna la giovane nube alla quale si impiglia.

Il ascolto il suo respiro delicato come ogni fronda la brezza che rechi la promessa di una pioggia nella calura estiva.

Io accolgo il suo risveglio con i colori del cielo e del mare che fanno a gara per cangiare e risplendere in una rincorsa allo stupore e ogni angolo sopra i tetti, tra i rami e le rocce si spinge a cercare l'impossibile e il non contemplato per onorane il suo ingresso nel nuovo mattino.

Io accompagno ogni minuto del suo giorno, come il canto gentile che nessuno strumento ha mai condiviso, perché l'aria non basta a contenere il mio amore per lei e ogni nota allarga lo spazio a lei intorno e lo moltiplica in rivoli e cascate di diamanti e gocce di platino.

 

Io tesso un'ode alla sua vita con ogni palpito del mio cuore ed ogni sollevarsi del mio petto come filigrana antica ed ombreggiata dello sguardo dell'onice e della giada.

 

Perché lei è entrata dentro di me ed ha completato l'opera che iniziò mia madre.

 

Perché lei mi insegna la scrittura dell'amore come io fossi ingenua ed inesperta allieva al primo banco di scuola.

 

Perché lei apparecchia la tavola della mia mente con calici di ineffabile bevanda e cibi di squisito raro sapore come un'ancella devota e puntuale.

 

Perché lei affila il mio pensiero come la correggia felpata di cuoio di primo fiore la lucente lama del rasoio di Toledo.

 

Perché lei accende le mie carni come la fiamma la pineta resinosa in agosto quando lo scirocco asciuga le forre nascoste ed ingiallisce l'erba sfinita dalla sete.

Perché lei spegne il mio rogo con la pace delle campagne che sotto la neve di gennaio accolgono il seme del grano per il pane dell'anno che verrà.

 

Perché lei completa la mia anima con quella parte che le fu strappata in un infinito lontano da un destino di dualismo, riunendo i lembi di una ferita che fino al suo venire sanguinava e bruciava intensamente e al tocco delle sue mani senza tempo si è chiusa lasciando solo un segno leggero a rammentare il destino che divide per riunire.

 

Perché non vi è uomo né Dio che possa e voglia ora dividere chi si è cercato per così tanto immenso spazio, percorrendo difficili e impervie strade di sassi e fango e ora non chiede altro alla vita di continuare a scorrere perché questo intero azzurro pianeta possa ascoltare sotto la volta del proprio orizzonte il limpido vibrato violino del nostro amore.

 

 

CAPITOLO

 

VENTICINQUESIMO

 

 

 

RODOLFO

 

 

- campo lungo -

 

 

Il matrimonio con Antonio era finito da cinque anni, durante i quali avevo solo fatto sesso con Stefano qualche volta.. naturalmente il 'suo' sesso.

Il suo odio, il suo disprezzo - di Antonio - la sua violenza, la sua follia e il suo rifiuto nel sesso, che con lui era stato il più intenso e bello che fino ad allora avevo conosciuto, ad eccetto di un unico rapporto con un bellissimo Roberto che però era sposato e, dato che si capì immediatamente che tra noi c'era già amore forte, se ne andò subito per non mettere in pericolo il suo matrimonio, dicevo la fine del mio matrimonio mi aveva lasciata veramente a pezzi e ferita profondamente nella mia femminilità.

Ma allora ero ancora forte.

Mi buttai nel lavoro, ma anche lì i problemi non mancavano: furono 5 anni durissimi, di furioso impegno, pensando solo ai figli.

Poi arrivò la mia prima crisi di panico, le prime cure psichiatriche, la follia che avanzava, la solitudine

La certezza che quella non era la mia strada, le prime cure alternative con il mio maestro Francesco.

Lui mi consigliò di fare qualche cosa per me, qualche cosa che mi piacesse davvero.

Tornai ad andare a cavallo.

Andai al circolo ippico che già conoscevo, in una meravigliosa pineta, con i tramonti infuocati e le tracce di lepri nella sabbia dei sentieri, mentre i voli meccanici e pesanti dei fagiani sfrullavano al mio galoppare.

La felicità tornò in me. E con lei la forza e la speranza.. ma i figli erano la sola cosa.

A cavallo avevo conosciuto Rodolfo. Io avevo 46 anni lui 58.. era un brutto ometto dolce e triste, maltrattato da una moglie acida e dispotica.

L'istruttore del circolo mi chiese di portarlo con me in passeggiata in pineta e cavalcammo a lungo insieme.. lui non era bravo come me, io sono una valchiria, o almeno le ero, un'amazzone e così io moderavo la velocità e facevamo tanto passo..

I cavalli affiancati e lo spettacolo dei verdigrigiazzurri sfumati ci stringevano vicini

Ma io non capii che a lui piacevo..

Ripresi vigore, cambiai lavoro, aprii una ditta di vendita itinerante e comincia ad andare in giro per l'Italia col mio furgone e lo stand, da sola..

Smisi di andare a cavallo

Rodolfo mi cercò per un anno intero sempre chiedendomi di tornare in pineta con lui, ma io non penso mai che qualcuno possa avere interesse per me.

Pensavo solo che lui avesse voglia di galoppare e trottare in tranquillità e rifiutai sempre, gentilmente.

Dopo un anno di telefonate brevi e generiche, anche se affettuose, un giorno che lui mi chiamò, io avevo uno dei miei soliti problemi agli occhi, alle lenti a contatto.

Lui era ottico aveva una catena di cinque negozi: gli chiesi un consiglio e lui mi disse che mi avrebbe spedito una cosa da provare.

Due giorni dopo mi arrivò un pacchettino di lenti a contatto monouso: che gentile che era stato, pensai.

Le provai e mi trovai subito assai bene.

Così lo chiamai per ringraziarlo..

Due giorni dopo mi venne recapitato un altro pacchetto con dentro una confezione per sei mesi di quelle lenti.

Rimasi commossa. Da tanto, troppo tempo nessuno mi regalava più nulla.

Lo chiamai di nuovo e lui mi chiese di uscire. Io per forza di cose accettai

Era piccolo e magretto, col nasone, ma aveva gli occhi azzurri, una bella voce, mani gentili

In macchina mi baciò.. io non me lo ero immaginato ancora cosa lui potesse volere da me, nonostante avessi già avuto diverse esperienze, ero ancora una piccola bimba insicura ed ingenua. Come sono tutt'ora.

Fu bello sentirmi di nuovo desiderata.

Nei giorni seguenti lui mi corteggiò in modo così gentile e garbato, affettuoso, con telefonate e messaggi, dato che abitavamo in due cittadine diverse ed essendo sposato non aveva facoltà di movimento, Quando mi chiesi di fare l'amore con lui, io accettai.

Andammo in un motel.

Lui era molto emozionato, non riusciva ad avere l'erezione perché da tantissimi anni non aveva più rapporti con la moglie e se ne scusava imbarazzato. Io lo avvolsi di dolcezza: che mi importava di una erezione?

Lo amai come non era mai stato amato e me ne innamorai.

Durò tre mesi.

Lui era di una dolcezza estrema e così presente, se pur ci vedessimo solo due ore alla settimana il giovedì pomeriggio, era così presente come nessuno mai era stato nella mia vita.

Gli scrivevo lunghe pagine di noi, lui beveva le mie parole

La sua voce era bassa e cara.

Io facevo una vita difficile:lavoravo sette giorni su sette, 20 ore su 24. Lui mi seguiva in tutto, se pur a distanza, io avevo in lui una costante per tutto.

Quando ci incontravamo era bellissimo.. lui mi amava ed era tornato vigoroso come un giovane.

Era felice, io lo ero

Venne a casa mia era l'8 marzo con una scusa di lavoro

Una intera giornata insieme

Lo presentai ai miei figli che lo accolsero con gioia.

Lui era ricco, aveva il camper due barche..fantasticava di viaggi e mare

Io ero felice davvero

Dopo tre mesi non ce la faceva più: mi disse che voleva che io e i ragazzi fossimo venuti a vivere nella sua città per prendersi cura di noi.

Io stavo così in difficoltà e stavo lottando contro tutto che mi sembrò di sognare

Pensai che la vita mi stesse rendendo tutto quello che mi aveva tolto.

Era venerdì sera: mi disse che avrebbe parlato con la moglie.

Poi, fino al lunedì, più nulla.

Io non potevo chiamare, tanto per cambiare...

 

Il lunedì mattina mi disse che lui e la moglie si erano ritrovati, dopo 15 anni di totale distacco e che sarebbe rimasto con lei, che tra noi era finita.

Fu una pugnalata

Mi feci male graffiandomi e picchiandomi, ebbi una crisi terribile, lui si spaventò e mi disse che saremmo rimasti insieme.

Ma il suo era un piano. Divenne freddo, sparì dal mio cuore, non volle più vedermi a parte una sola disgraziata volta che io andai nel suo negozio e facemmo l'amore per l'ultima volta.

Io lo imploravo di amarmi

Che fosse rimasto pure con la moglie, che non ci fossimo visti pure più, ma che avesse continuato ad amarmi

Ma lui aveva paura di essere scoperto da lei che gli aveva promesso che lo avrebbe lasciato chiedendogli la separazione e mettendolo sul lastrico..i beni erano in comunione

Gli scrivevo ogni giorno una lunga lettera per cercare di fargli sentire il mio amore e tutta la sua bellezza e gliela spedivo col fax

Poi cominciai ad implorarlo di dirmi che non mi amava più, in modo che io potessi staccarmi da lui, ma non lo fece mai

Io entrai in una profonda depressione

A giugno mi misi a letto non uscii più a lavorare

Tutto era perduto

A luglio lui partì con la figlia e la moglie in camper per Parigi.

Io mi imbottii di psicofarmaci e gli telefonai con l'ultimo filo di voce

Ma lui ugualmente sparì

Mi salvarono, ma in ospedale ci riprovai ancora tagliandomi le vene con uno specchio rotto e poi soffocandomi con una busta di plastica, ma fui salvata sempre dagli infermieri

Poi mi sedarono talmente che mi bruciarono.

Non riuscivo più neppure a parlare, avevo il pannolone.

Mi mandarono a casa, ero persa

I miei volevano mandare Betta e Lele dal padre, loro non volevano: io ascoltavo il loro furioso litigio, non riuscivo a parlare ma sentivo.

Cominciai a far finta di prendere le medicine che mi davano, ma poi appena sola le sputavo, Nel giro di qualche giorno riuscii a chiamare una mia amica, che mi portò da Francesco

Dopo un mese ero tornata al lavoro, andai in fabbrica per qualche mese poi tornai a fare l'agente di commercio.

mi sequestrarono tutto quello che avevo

Mia madre mi abbandonò d'accordo con mio fratello, mia figlia più grande se ne andò di casa.

Io avevo lo sfratto, ma riuscii con l'aiuto di Antonio a trovare un'altra casa.. ricominciai

Per Betta e Lele.

Ma avevo un furioso bisogno d'amore.. seguirono 18 mesi di follie sessuali

Poi Chiara

E questa è un'altra storia..

 

 

CAPITOLO

 

TRENTUNESIMO

 

 

SALVA LA

 

COMETA

 

IO POETA

- terzo respiro -

 

SALVA LA COMETA

 

Approdo alla riva

profonda

silente

lucente

 

Vibro il colpo

 

Lo specchio si

infrange

 

L'anima cade

a pezzi

 

Il cielo piomba

in picchiata

 

La melma ricopre

le stelle

 

Quante lacrime

verserò per lavarle?

 

29 dicembre 02;30

 

CAPITOLO

 

TRENTADUESIMO

 

 

DO RE MI FA

 

SOL LA SI

 

COME PUO'

 

ACCADERE SE

 

NON CI CREDO

 

NEPPURE IO?

 

28 dicembre 08;59

 

- piano americano -

 

Non ho dubitato dell'amore, né di me, ma della vita.

È questa l'immonda bestemmia che alberga nel mio cuore.

È vero che la vita non ha giocato leggero con me, ma io con lei certo non ho fatto di meno. Ho cercato e poi cercato di andarmene, di rifiutarla, di sottrarmi al mio compito, al compito che io stessa ho scelto con le mie vite passate, col mio karma.

La vita è l'espressione vivente del Movimento Assoluto ed io ne sono un eterno attimo pulsante.

Ma non ho ricevuto tutto, ricevendo la vita? Cos'altro mi è dato di più?

Ogni mio respiro deve e vuole essere un cantico innalzato a questo immenso stupore di cui il dolore non è che una nota necessaria per il fluire della sinfonia. Se manca il DO, come si può eseguire buona musica?

La vita comincia con un DO come dolore: il parto è un fortissimo do, senza il quale la vita muore subito ancora prima di prendere il primo respiro, un do che stringe e spaventa, che sembra non possa finire mai, che è ignoto puro, ma che poi si scioglie ed esplode in un RE.

Re per una vita, re di me stessa, di una infinita riserva di pensieri, di parole, di emozioni, re dei miei occhi chiari e trasparenti attraverso i quali la luce entra e si deposita trasformandosi in immagini, in colori, in sfumature e miraggi, in interpretazione tra luci e ombre..

Re delle mie orecchie, che sono protese verso l'aria percorsa dalle onde sonore e vibrano al loro toccare il tamburo risuonante del timpano.

Re della mia bocca che succhia l'aria che mi porta ossigeno per attivare il sangue, che accoglie il cibo che si digerirà e regalerà massa ed energia, l'acqua che placherà l'arsura a inturgidirà le cellule alla vita, che emette vibrazioni sonore per esprimere pensieri, concetti, desideri, sentimenti.

Che ha sfiorato le tue labbra, ha bevuto dell'amata.

Re delle mie mani che attraverso la pelle dei polpastrelli leggono la realtà, la conoscono e riconoscono, l' interpretano, la fanno mia, la catturano e la trattengono per poi donare la mia soggettività a chi le afferra, le stringe, le accarezza.

Re delle mie gambe che, forti, mi hanno sostenuto e portato ovunque, mi hanno fatto provare l'ebbrezza della corsa, il fluire del nuoto, lo spiccare del salto, che hanno abbracciato il costato della mia cavalcatura perché io potessi galoppare con essa e sentirmi centauro, che hanno spinto i pedali della mia bicicletta per accorciare le distanze e aumentare le mie possibilità di spostamento, che celano alla loro sorgente la sorgente stessa della vita e del desiderio.

Re della mia mente che pensa e trae dai succhi chimici e dagli impulsi elettrici e nervosi ali chiamate pensieri che non hanno limitazioni di spazio, tempo luogo, che sono potenti più di ogni altre forza e smuovono le montagne, trasformandole.

Mente che scava come una pala e accosta come una sutura chirurgica, che veste e inventa, che interpreta e sconvolge, che accetta e comprende il MI.

Mi come mi sento viva, mi piace, mi piaci, mi voglio, mi metto in gioco, mi esprimo, mi manifesto, mi commuovo, mi annuncio, mi presento, mi esalto, mi muovo, mi ricordo, mi addormento, mi sveglio, mi nutro, mi disseto, mi amo, mi realizzo, mi evolvo, mi completo, mi tramando in un FA.

Ogni giorni il FA è un fardello di continue scommesse, di tentativi e prove, di piccole esaltanti vittorie e grandi acri sconfitte, ed ognuna di esse mi fa più forte, mi fa più bella, mi fa più matura ed affidabile, mi fa più sicura.

Il vita fa di me il suo fautore fino ad arrivare al SOL.

Sol come sole, che brilla e accende il giorno o langue e partorisce la notte, che scalda nella primavera di germogli o si nasconde nell'inverno del riposo, oppure brucia e dissecca come un deserto di sale o fa evaporare l'acqua per dissetare le piante e gli animali, sole senza il quale ogni meccanismo si inceppa.

Sol come solitudine, nella quale fare cassa di risonanza di me stessa, nella quale trovare il giusto peso degli altri, nella quale rifugiarmi per capire ed ascoltare e dalla quale ripartire per tornare alla riscossa e andare LA.

Là è il luogo dove sono attesa, dove la porta è aperta e la tavola imbandita, dove il predone ha pronto il coltello e il laccio di cuoio. Là è dove voglio arrivare ma non sono ancora giunta, è dove non so cosa troverò, è dove non conosco luoghi o persone. Là è quanto io mi sono prefissa di raggiunge, là è il mio compito il mio viaggio tortuoso fatto di soste e di ritorni, di partenze improvvise, di fughe vigliacche e di coraggiosi assalti. Là è dove posso arrivare se solo ogni momento dico SI.

Si è come dire ci sono, come dire, sono d'accordo, ti accolgo, ti seguo.

Si è la terra che accoglie il seme, l'acqua che ne ammorbidisce le pareti, la luce che ne nutre le fibre e muove il germogliare.

Si è chinare il capo verso il basso guardando i propri piedi, le proprie radici, farsi piccoli e miti per poi rialzarlo al cielo volgendo lo sguardo al futuro, all'attimo che sta arrivando, guardando in faccia l'ignoto e offrendo il cuore attraverso gli occhi, apertura sul mondo.

 

Ogni giorno appongo la chiave di violino al pentagramma e comincio a comporre la nuova sinfonia e, per farla bella e preziosa, le note servono tutte, giacché anche la mancanza di una sola fa una scala zoppa, un pianoforte scordato, una mano senza un dito.

E come posso io, Dio vivente, sottrarmi alla mie stesse regole, ai miei stessi dictat? E come voglio io non credere nella mia vita, non avere quella immensa fiducia di chi sa che ogni cosa ha un senso, una radice e un motivo di essere, a non sorridere ad ogni momento, sapendo che proprio quello è il senso ultimo, l'ultimo nato dell'antico cammino, il fresco germoglio che gemma il fiore e il frutto di domani?

Ma come può accadere che io colga frutti se proprio io sono colei che non crede di poterlo fare, che non crede che frutti possano esistere?

Il dolore ha sconquassato il sedimento di questo profondo pozzo che è il mio cuore e ne ha fatto venire a galla questo tesoro nascosto dalle melme del tempo.

E benedette quelle lacrime, benedetto quell'orrore nero che mi ha avvolto benedetto è tutto ciò che ha sconvolte queste acque scure facendo si che l'onda creata donasse la nuova energia per il ritrovamento del tesoro sepolto.

Come gioiello celato nella piega della veste che io non avevo visto e che avrebbe potuto risparmiarmi una vita di privazioni se solo avessi avuto l'accortezza di guardare nel profondo e con attenzione le mie cose.

 

La vita serve alla vita, è il cibo di se stessa e, pur anche quando le nuvole del polo coprono lo sguardo caldo del sole, esso brilla focoso nel suo regno di buio.

Io ho creduto fino in fondo di non essere degna di quello che stavo vivendo e con questa mancanza di fiducia in me stessa e in quello che provavo, ho mandata via la realizzazione dei miei sogni e desideri.

Ma come morso che spezza è stato questo dolore, perché così forte amo, così forte tendo alla luce che neppure io stessa posso essere l'ostacolo che si interpone tra me e quella, neppure il mio nemico più grande, il mio male oscuro senza tempo, serve ad arrestare il mio cammino che non ha eguali alla fonte primigenia dell'amore.

 

E non dirò mai più: ' A cosa serve tutto questo dolore? ', perché ho compreso che la perfezione è imperfezione, che miriadi di piccole note che da sole son colpi e tagli insieme accostate al rigo del flusso eterno, portano al compimento e al raggiungimento del proprio signore.

 

Il senso della vita è vivere, anche quando si desidera morire, il senso della vita è essere, esistere, librarsi sull'infinito. È chiudere gli occhi e sentire ogni voce avere un eco nella mia valle, e tra tutte quelle, riconoscere quella dell'amata e rivolgermi a lei festante, in ascolto, in estasi e completa delizia.

 

 

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Commenti: 5
  • #1

    silvia (venerdì, 17 agosto 2012 01:12)

    Bellissimi .................

  • #2

    Peter Kosta (martedì, 08 marzo 2016 08:23)

    Gentile Signora Arianna Amaducci!

    Sono un musicista e un artista e sono sposato con una italiana da Forlì (Emilia-Romagna).

    Io sono un tedesco-ceco (il padre era un Ebreo tedesco, è sopravvissuto all'Olocausto ad Auschwitz e, pertanto, avrebbe potuto più tardi mi testimonierà, mia madre era una ceca, si rendono conto che non sono più abbastanza così giovane, i miei genitori sono soddisfatte da un vita (mio padre con 93, la mama "Mutti" potrebbe essere ancora viva - e deve, ma morì a soli 5 settimane dopo il mio papà) l'anno scorso appena sono entrambi passati da noi in successione.
    Pertanto, ora sono un po 'più aperto a poesie in cui non tutto è soltanto glorificato e idealizzato ma dove la dura realtà è trasformata splendidamente nella poesie dal una poetrice grandiosa
    e che comprende, a mio avviso, la sua raccolta di poesie
    In Internet.

    Mi piacerebbe gestire queste poesie nelle mie canzoni, in realtà solo il fatto che Laconsegno la musica. Mi piaci di inviare un campione, ma prima ho bisogno di Lei personalmente per chiedere se si desidera consentire che le Sue poesie da distribuire al pubblico in portali professionali per i musicisti, in tal modo si sarebbe forse ancora più famosa anche tra i giovani, perché posso e so cantare molto bene e accompagnare ala mia chitarra.

    Sarei molto felice se potesse rispondermi
    Anche un rifiuto o pure una risposta negativa non è un insulto per me. Voglio dare un link per le mie canzoni di rock:

    https://soundcloud.com/user-948197778-168529378/2014-years-bc

    Molti cordiali saluti
    Peter Kosta (vicino di Berlino Germania)

    la vostra poema

    piano americano -

  • #3

    arianna amaducci (martedì, 08 marzo 2016)

    gentilissimo Peter,
    con grande piacere accolgo la sua richiesta!!
    usi pure le mie parole per le sue canzoni..
    le chiedo solo di citarmi come autrice del testo..
    e, naturalmente di mandarmi i link delle sue creazioni, in modo che io possa pubblicarle qui..
    se vuole scrivermi in privato, questo è l'indirizzo mail: ariannaamaducci@libero.it
    ho ascoltato alcuni suoi pezzi e mi sono piaciuti molto.. lei è molto bravo...
    aspetto allora con ansia il suo primo pezzo con le mie parole...
    cordiali saluti e voi....

  • #4

    Peter Kosta (martedì, 08 marzo 2016 16:43)

    Gentile Signora Arianna Amaducci!

    Sono un musicista e un artista e sono sposato con una italiana da Forlì (Emilia-Romagna).

    Io sono un tedesco-ceco (il padre era un Ebreo tedesco, è sopravvissuto all'Olocausto ad Auschwitz e, pertanto, avrebbe potuto più tardi mi testimonierà, mia madre era una ceca, si rendono conto che non sono più abbastanza così giovane, i miei genitori sono soddisfatte da un vita (mio padre con 93, la mama "Mutti" potrebbe essere ancora viva - e deve, ma morì a soli 5 settimane dopo il mio papà) l'anno scorso appena sono entrambi passati da noi in successione.
    Pertanto, ora sono un po 'più aperto a poesie in cui non tutto è soltanto glorificato e idealizzato ma dove la dura realtà è trasformata splendidamente nella poesie dal una poetrice grandiosa
    e che comprende, a mio avviso, la sua raccolta di poesie
    In Internet.

    Mi piacerebbe gestire queste poesie nelle mie canzoni, in realtà solo il fatto che Laconsegno la musica. Mi piaci di inviare un campione, ma prima ho bisogno di Lei personalmente per chiedere se si desidera consentire che le Sue poesie da distribuire al pubblico in portali professionali per i musicisti, in tal modo si sarebbe forse ancora più famosa anche tra i giovani, perché posso e so cantare molto bene e accompagnare ala mia chitarra.

    Sarei molto felice se potesse rispondermi
    Anche un rifiuto o pure una risposta negativa non è un insulto per me. Voglio dare un link per le mie canzoni di rock:

    https://soundcloud.com/user-948197778-168529378/2014-years-bc

    Molti cordiali saluti
    Peter Kosta (vicino di Berlino Germania)

    la vostra poema

    piano americano -

  • #5

    Arianna amaducci (martedì, 08 marzo 2016 17:44)

    Gentilissimo Peter,
    Le avevo già risposto stamattina..
    Non visualizza la mia risposta??
    È proprio immediatamente sopra questa sua seconda mail...
    Cordiali saluti

CARISSIMI AMICI

inserisco da oggi, 17 agosto 2017, il tasto per ricevere vostre donazioni...

 

finora non vi ho mai chiesto nulla..

ho messo qui le mie opere perchè fossero a vostra disposizione e l'ho fatto come scelta politica e personale..

ma la mia vita è diventata durissima...

Mia madre non mi aiuta più in maniera costante ma solo molto saltuariamente.

i miei figli non mi parlano quasi...

il denaro che il mio ex marito mi diede in fase di divorzio, nel 2013, che mi ha permesso di sopravvivere fino ad ora, è terminato...

ricevo mensilmente 800 euro dallo stato ma 500 se ne vanno per l'affitto e le spese di casa..

capite che quel che resta non basta neppure per il cibo mio, per Brugola e per Stellina

 

Non vi chiedo un ingresso obbligatorio, chi non può o non vuole, continui pura a fruire dei contenuti del mio sito in maniera gratuita...

 

 

 

ma

ora tu, che entri qui per leggere, guardare, ascoltare, puoi aiutare arianna amaducci...

 

grazie se lo farai..

 

fare una donazione è molto semplice, clicca sul tasto e segui le istruzioni... 

non vi è un tetto minimo... bastano anche 50 centesimi ogni volta che passi di qui...

 

 

grazie, sinceramente

 

pace e luce nel tuo cuore e nella tua vita